Il Cjapiel Stampa

da: del notiziario Gruppo di Milano centro Alpin del Domm

SUPPLEMENTO
IL CENTENARIO DEL
CAPPELLO ALPINO
IL CENTENARIO DEL CAPPELLO ALPINO
1910-2010
Abstract dell’articolo scritto per
“Aquile in Guerra, n. 18 – 2010”
Società Storica per la Guerra Bianca
con adattamenti per il presente “Supplemento”
“E’ adottato per la truppa dei reggimenti alpini un cappello di feltro grigioverde che completa la nuova uniforme da campagna
stabilita per dette truppe. Detto cappello consta: di un feltro, di una fodera, di una fascia di alluda, di 4 occhielli,
di una soprafascia, di un cordoncino, di un porta nappina e degli accessori i quali sono per gli alpini: la nappina, la penna
ed il fregio e per l’artiglieria da montagna: la coccarda, la penna ed il fregio. (…)”
Così inizia l’Atto n.196 del 20 maggio 1910, pubblicato sul Giornale Militare a firma del Ministro Spingardi,
che sancisce il cappello in feltro, ma solo per i sottufficiali, i graduati e la truppa dei reggimenti
alpini e dell’artiglieria da montagna.
Questa disposizione – che commenteremo più avanti nella sua completezza – è frutto di varie trasformazioni
ed esperienze che il Corpo degli Alpini ebbe fin dal 1872.
Il cappello alpino non è un mero oggetto avente una semplice funzione d’abbigliamento o corredo per
l’uniforme, ma è anche un simbolo significativo per la nostra
storia nazionale come lo erano già alcune tipologie di cappelli
e berretti dell’Italia risorgimentale. Nel Cappello Alpino
c’è anche un po’ del loro, se è vero che la Bombetta
degli Alpini del 1873 è chiamata pure Cappello alla Calabrese
o all’Ernani, in onore dell’opera celebrata da Verdi fin dal
1844 (1). I cappelli sopranominati avevano creato una moda
“sovversiva” che venne bandita addirittura da un decreto
del 15 febbraio 1848 a firma del barone Torresani Lanzenfeld,
allora direttore generale della Polizia a Milano.
Nonostante ciò, i cittadini milanesi si beffeggiarono del
decreto e modificarono i cappelli “patriottici”; così, giusto
per imitare la penna – simbolo di libertà e rimasta sul cappello
alpino – sollevarono lateralmente la tesa del proprio
copricapo. Allo scoppio delle Cinque Giornate di Milano, i
cappelli sanzionati dal I.R. Decreto ricomparvero numerosissimi
sulla testa di tutti, uomini e donne, abbelliti da vistose
coccarde tricolori ed ampi piumaggi, diventando popolarissimi.
Fra i cappelli più popolari del risorgimento, infine, non
possiamo dimenticare quello dei Bersaglieri con le sue piume
al vento ideato dallo stesso La Marmora.
Venendo al periodo della fondazione degli Alpini, nel 1872
il Ministro Magnani Ricotti diede impulso a nuove riforme
per l’Esercito, interessandosi particolarmente alla nuova
uniforme.
Pertanto, secondo i principi della riforma Ricotti, le vecchie
uniformi dal taglio francese si dovevano sopprimere e le
nuove divise dovevano essere comode ed eleganti, avvicinandosi
per quanto possibile a quella del borghese cittadino. Per quanto riguarda i berretti della fanteria,
famoso divenne il chepì a due visiere sul tipo di quello dei Cacciatori Sassoni, scherzosamente ricordato
come Pentolino Ricotti
Le divise dei Volontari di Parma del 1859 disegnate
dal noto illustratore Quinto Cenni. Da
notare il copricapo molto simile a quello che
diverrà il primo cappello degli Alpini.
I criteri uniformologici del Ricotti diedero
terreno fertile per la formulazione
dell’atto n. 69 del 24 marzo 1873 che stabilisce
le caratteristiche del cappello alpino
rigido incatramato noto a tutti noi come
“Bombetta” che però – sorprendentemente
– non corrisposero alle aspettative
del fondatore Perrucchetti che avrebbe
voluto per gli alpini l’uniforme simile a
quella dei Cacciatori Tirolesi, ritenuta la
più adatta alla bisogna.
La bombetta non subì nemmeno
l’influenza di altre due riforme uniformologiche
dovute al Ministro Luigi Mezzacapo
(2) nel 1876 e del Ministro Mazè de la
Roche (3) nel 1879. Anzi, la Bombetta fu
adottata – almeno stando ad una tavola
del Codice Cenni – anche dal Tiro a Segno
Nazionale, fondato nel 1878, dalla
Guardia di Finanza operante in montagna
(4) e da alcune Guide Alpine, segno che
divenne veramente molto popolare, nonostante
la poca praticità.
Per vedere un significativo cambiamento
del copricapo alpino si deve, dunque, aspettare
l’esperimento iniziato nel 1906
per la divisa del Plotone Grigio ad iniziativa
privata del noto sig. Brioschi. Tuttavia si
deve precisare che la preparazione
dell’esperimento fu eseguito da un team di
personalità. Fra queste preme evidenziare
il Tenente Alberto Bianchi, dottore in chimica
che creò il giusto melange del panno e
colorò le pelli; il cav. Rosti, sarto, che diede il taglio pratico ed estetico alla divisa. Il Brioschi portò
dagli USA il poncho e il cappello molle (che però ridusse un po’ nella tesa). L’uniforme del Plotone
Grigio, tuttavia, non fu di un solo modello: infatti dal 1906 al 1907 ben tre Compagnie di alpini del
Battaglione Morbegno vennero sottoposte ad esperimento, con copricapo, zaini e buffetterie una diversa
dalle altre.
Vi furono numerose opinioni di militari – anche famosi – a riguardo del copricapo; alla fine si crearono
“due partiti contrapposti”: uno pro cappello floscio l’altro pro berretto; di comune, risultarono poco
gradite le penne, i fregi, le nappine e tutto ciò che non era mimetico e poco pratico.
Così nuovamente il Tenente Generale Giuseppe Perrucchetti, da Torino sentenziò il 23.06.1907 sul
Cappello
“… Sarei solo in dubbio per dare la preferenza al cappello piuttosto che ad un berretto munito di alette da applicarsi a
guisa di soggolo. Fra la tormenta, le bufere, il nevischio io ho trovato un gran beneficio, soprattutto nella cattiva stagione
a far uso di un tale berretto, mentre è facile con una copertina di tela, foggiata a coprinuca, di ripararsi anche dal sole,
senza avere bisogno di due oggetti, cappello e berretto per copricapo” facendoci capire che per onore di praticità,
sarebbe stato meglio utilizzare solo un berretto floscio senza “orpelli” vari. Certo che tali osservazioni
dette proprio dal fondatore delle Truppe Alpine sono – per gli Alpini d’oggi – affermazioni shoccanti!
Più sentimentale, ma che vide giusto, fu il Capitano Vincenzo Conforti, V° Alpini, Morbegno che affermò
il 13.06.1907 “Che il cappello sia molle non solo, ma provvisto di larghe falde le quali permettono di riparare
la testa dal sole e dalla pioggia. Che il cappello stesso sia provvisto di penna (mi duole di non essere d’accordo in questo
Consegna del copricapo alla recluta, 1901. Quinto Cenni ancora
una volta, con abile mano, ci ha tramandato questo rituale gesto
che ancora oggi continua ...
col buono e simpaticissimo Brioschi). La
penna – a parer mio – rende il cappello
poeticamente più bello e soprattutto essa
è desiderata dai nostri montanari, come
lo prova il fatto che tutti indistintamente
i nostri alpini, appena possono, si provvedono
a loro spese di enormi penne, sia
per andare a passeggio che per recarsi al
proprio paese in permesso”.
Con oculata analisi il Capitano
Rosati, Agordo, così si espresse
l’1.06.1907
“Il cappello nuovo non metto in dubbio
che sia estremamente più pratico di quello
in uso, ma io penso che noi alpini
dobbiamo battere l’alta montagna, dove,
a mio modesto parere, un solo copricapo
è pratico, cioè un berrettone che si possa
calare negli orecchi quando soffia il vento,
infuria la tormenta o il freddo è intenso.
Attualmente, per tali circostanze,
la nostra truppa è provvista di un cappuccio
di lana, indossato il quale si lega
al capo col sottogola il cappello. Taluno
per il cappuccio ha quindi simpatie,
poiché dice serva bene ai soldati quando
dormono sotto la tenda. Tutto ciò non
nego, ma io penso che il nostro soldato –
specie l’Alpino – deve essere arredato
nel modo il più semplice e perciò, quando
è possibile ottenere ciò che ci si propone
con un solo oggetto, meglio sia attenersi
a questo modo per amore di semplicità
ed altresì per diminuire il peso ed
i fastidi. Pesa poco il cappuccio, lo so,
ma molte piccole cose formano un totale
considerevole. Se a questo si avesse sempre
posto mente, il nostro soldato non
sarebbe caricato e bardato come un mulo”.
Infine, con altrettante osservazioni
a favore del cappello, il Tenente
E. Bassignano, V° Alpini, Anfo osservò il 29.05.1907:
“Per conto mio desidererei che per noi ufficiali si avesse un copricapo unico, cioè il cappello. L’attuale berretto, se non
pesa di più del cappello grigio non è certamente più leggero e per di più, a differenza del cappello, non ripara né il sole, né
l’acqua, quindi forma solo un indumento di più da portare.
Al cappello toglierei la penna, poiché anche lasciata corta sotto la tenda si rompe facilmente; nel passare tra i boschi si
perde, si rompe, si riga, non sta mai a posto. Lascerei però la fascia esterna alta come quella dell’attuale cappello poiché
questa fascia serve assai bene a coprire alquanto le macchie di sudore che presto si formano. Toglierei il sottogola che è
perfettamente inutile in un cappello floscio che si adatta bene alla testa, mentre è molto noioso a portarsi.
Sul cappello non metterei nessun trofeo, ma solo il numero del reggimento, se si vuole in panno verde; oppure – meglio –
sottoforma di piccola spilla in alluminio attaccata alla fascia.
Stampa acquerellata del 1907 che raffigura la divisa del Plotone Grigio,
ideato dal Brioschi.
Alle varie forme di berretto date in prova al Plotone Grigio, sostituirei un berretto tondo, come quello del Kaiser, ma
senza tesa: questo berretto tondo portato nel sacco uso tirolese non si sformerebbe, non si guasterebbe nei servizi di fatica,
costerebbe poco, sarebbe di gran lunga durata e potrebbe – all’occorrenza, rovesciandone le falde – essere portato in sostituzione
dell’attuale cappuccio di lana”.
Finiti gli esperimenti sulla divisa grigia e approvato il colore grigio verde, colore che più si adattava al
colore del “terreno” italiano dalla Sicilia alle Alpi, il 20 maggio 1910, come riportato all’inizio di questo
scritto, “nasce” il cappello alpino in feltro grigio verde.
Descrizione del cappello
Il cappello è di feltro di pelo di coniglio di color grigio verde ed è formato di
una coppa con calotta ovale e di una tesa rialzata posteriormente e degradante
verso la parte anteriore ove risulta pressoché orizzontale. La tesa
ripiegata su se stessa verso l’interno costituisce l’orlo del cappello e la ripiegatura
è mantenuta da due cuciture a macchina parallele e distanti la prima
mm.2 a 4 e la seconda mm.3 a 10 dall’orlo, (…).
L’altezza della coppa è proporzionata alla taglia.
Così come è descritto nella circolare, il feltro doveva essere di
pelo di coniglio (il lapin, d’allevamento, o il garenne, selvatico),
ma vedremo che invece non fu sempre così: la produzione in
tempo bellico ricorse al feltro in lana merinos. Per cui possiamo
descrivere:
a) lavorazione del feltro in pelo di coniglio:
Il pelo di coniglio proveniva da allevamenti soprattutto francesi
ed inglesi, selezionato in base alla qualità del pelo e inviato ai
cappellifici. I Cappellifici che ricevevano le pelli dovevano iniziare
la lavorazione con la spuntatura, cioè il taglio delle cime dei
peli più grossi, mettendoli a pari. La pelle così preparata viene
rasata e il pelo separato dalla pelle. Questa viene inviata alle
concerie, mentre il pelo, a seconda della qualità viene preparato
per il secretage. Infatti, il pelo di coniglio, se trattato in modo
particolare e ripetutamente pressato, tende ad “agganciarsi”
l’uno all’altro, creando quindi un infeltrimento. Per feltrare velocemente
ha bisogno dell’aggiunta di sostanze acide, mercurio
e acido nitrico (operazione detta appunto secretage poiché originariamente la formula era tenuta segreta
dai maestri preparatori, poi detta mordenzatura). Proprio per l’aggiunta di sostanze chimiche,
l’operazione era pure pericolosa. Il più grave pericolo era l’avvelenamento che provocava la malattia
professionale dell’eretismo mercuriale: i sintomi erano l’alterazioni del comportamento e della personalità,
la perdita del sonno e della memoria e – in molti casi – l’irritabilità. Non a caso si parla del
“Cappellaio Matto” in Alice nel Paese delle Meraviglie!
La diversa qualità di peli dà l’opportunità di preparare mischiature secondo il tipo di cappello da produrre.
Si prepara così la mischia pesata e selezionata dal maestro sufficiente per 2 o 3 cappelli, ricavata
da una decina di pelli di coniglio.
Dopo alcune operazioni, si arriva all’imbastisaggio: il pelo soffiato passa in una macchina imbastitrice
che spruzza il pelo su un cono intelato che gira a fortissima velocità, creando così un velo di un certo
spessore. Una volta ottenuto questo velo a forma conica, si passa all’operazione chiave della follatura.
La prima informatura del feltro eseguita a
mano effettuata presso il cappellificio Cervo
alcuni decenni or sono.
(arch. L’Alpino)
E’ in pratica una percussione violenta e ripetuta delle imbastiture che venivano assodate in caldaie
d’acqua bollente con acido solforico; il risultato era che le fibre si gonfiavano, diventando vischiose e
compatte. In questo modo la pezza può già subire una prima informatura per compattarla e avere una
forma, tirando verso il bordo per iniziare a sagomare l’ala. Le pezze erano presi uno ad uno dal cappellaio,
posti su una apposita forma di legno che, in modo grezzo, già dava un’altra informatura.
b) lavorazione del feltro di lana merinos:
Quantunque la disposizione ministeriale parla di pelo di coniglio, durante la I^ Guerra alcune ditte addette
alla produzione del feltro, dovettero ripiegare
sulla lana; ciò fu dovuto essenzialmente a
causa del blocco delle importazioni e
dell’aumento dei costi della materia prima. Inoltre,
al contrario di quanto si potrebbe credere, il
mercato del cappello subì una impressionante
crisi, dovuta all’impossibilità di esportare il cappello
civile negli Stati esteri. Le commesse militari
furono irrisorie rispetto alla produzione dei
cappelli civili in tempo di pace e la guerra fece
dunque strage di aziende/laboratori produttori
di cappelli.
Monza fu il centro maggiore di produzione del
feltro in lana merinos ed è proprio qui che troviamo
la produzione dei cappelli alpini in lana e
non in pelo, diversamente da Intra e Ghiffa.
La lana deve subire alcune preparazioni più
complesse di quelle per il pelo per arrivare alla
follatura che è l’operazione fondamentale per infeltrire
la lana. Il prodotto che ne deriva è il follone,
in pratica un cono di feltro pronto per essere
lavorato nella forma, ma non più nella sostanza.
A questo punto le operazioni sono in generale
identiche per entrambi i feltri in pelo ed in lana.
Le pezze venivano sbordate a forbice e rasate; poi
pomiciate a pietra o con carta vetrata per toglierne
la ruvidezza.
Con l’informatura, il cappello incominciava a prendere la forma voluta: veniva riscaldato, modellato su
altre forme in legno con le dovute misure di circonferenza, d’altezza e con appositi ferri caldi.
Questa forma era solitamente composta in due parti: una per la creazione della coppa, l’altra – detto
cerchio – per la tesa. Ogni azienda aveva una propria falegnameria che produceva delle vere e proprie
sculture in legno per creare i modelli. In particolare doveva essere eseguita al tornio la coppa con la
giusta curvatura. Ed è proprio la forma della coppa e del cerchio a essere fondamentale: pare che per
la coppa venisse usata quella della bombetta degli Alpini mod. 1873, dando alla cupola del cappello
quella particolare rotondità tipica delle prime produzioni. Già una piccola variazione della coppa (una
curvatura più o meno accentuata, un’altezza più o meno differente) determinava già la forma finale del
cappello. La curvatura della coppa, per gli esperti, contraddistingue un cappello alpino del periodo della
Grande Guerra, degli anni ‘20/’30 e della II^ Guerra Mondiale (oltre la qualità che è andata via via
sempre peggiorando!). Infatti la cupola dei cappelli della II^ Guerra Mondiale è molto più alta e squadrata,
mentre il colore del feltro non è più grigioverde, ma grigio azzurro per poi tendere al verdone
per quelli prodotti nel periodo post bellico.
Il cerchio doveva essere delle dimensioni stabilite dall’atto ministeriale: la lunghezza della tesa quasi costante
per tutte le taglie, è di mm 80 circa nella parte anteriore e posteriore ed è giustamente proporzionata ai lati. L’altezza
La coppa utilizzata per informare la cupola del cappello
alpino mod. 1910: una vera e propria scultura in legno. La
stessa forma serve per la cupola delle bombette ottocentesche.
(arch. Cappellificio Melegari, Milano).
della coppa è proporzionata alla taglia. Il cerchio doveva essere eseguito in modo tale che si incastrasse perfettamente
intorno alla coppa e riportava un intaglio alla giusta altezza per creare la ripiegatura del bordo
della tesa, presente nel cappello alpino. Per questa operazione esisteva un apparecchio apposito che
aveva delle rotelle con lama e il feltro, nella sua forma di legno, veniva tagliato di netto e sbardato.
Un'altra macchina prendeva e piegava l’orlo cucendolo con due cuciture a macchina parallele e distanti la
prima mm.2 a 4 e la seconda mm.3 a 10 dall’orlo
Infine, un cappellaio particolarmente esperto, dava la forma definitiva al copricapo con apposite presse
a vapore.
La circolare ministeriale prosegue poi: in ciascun fianco della coppa sono praticati all’altezza di 75 a 80 mm
dalla base, due fori muniti di occhiello di metallo verniciato (5) e distanti tra loro mm.42 a 48.
Inoltre il cappello è fornito da una soprafascia e di un porta nappina di cuoietto al cromo di color grigio verde e dello
spessore di mm.1. La soprafascia è larga centimetri 2; il porta nappina è applicato sul lato sinistro del cappello, il quale
è inoltre guarnito di un cordoncino di lana color grigio verde del diametro di mm.8 cucito a rosetta sulla parte inferiore
del porta nappina e girante tutto intorno alla sopraffascia.
Internamente il cappello è provvisto di una fodera di tela cotone rasato nera e di una fascia di alluda alta mm.45 cucita
inferiormente all’orlo della coppa e superiormente alla fodera.
I cappelli, a seconda dello sviluppo interno misurato sulla fascia di alluda, sono di otto diverse dimensioni o taglie e cioè:
centimetri 60, 59, 58, 57, 56, 55, 54, 53.
I lavori di guarnizione erano eseguiti per lo più a mano da donne e ragazze: dal lavoro manuale era
esclusa – ad esempio – la cucitura della fascia di alluda all’interno della cupola che poté farsi solo nel
primo ‘900 quando la ditta Carl Lehman di Berlino pose sul mercato una macchina capace di fare questa
operazione per trenta/cinquanta dozzine di cappelli al giorno.
Poiché la parte anteriore della tesa è trapuntata con cuciture a macchina pressoché concentriche alla base della coppa e
distanti tra loro mm. 5 a 6, l’operazione veniva eseguita dalla macchina cucitrice, manovrando il cappello
Rendering che illustra un cappello alpino posto sulla sua forma in legno per la formatura della coppa. E’ proprio
questa curvatura che identifica un cappello delle prime produzione rispetto a quelle degli anni ‘20 , ‘30 e ‘40.
su una bascula. Data la distanza
e l’ampiezza della parte anteriore
della tesa, risultavano nove/
dieci trapuntature a forma di
mezzaluna (6).
Al termine di tutto ciò il cappello
alpino, dopo un’ultima
informata, poteva venire controllato
da un personale preposto
che segnava il prodotto con
il timbro di conformità al capitolato
militare.
Concludiamo l’analisi delle fonti
tratte dal Giornale Militare
con l’atto 388 – Varianti alla
divisa degli ufficiali del R. esercito, 5
settembre 1910, §9, relativo
all’Ufficiale degli alpini e
dell’artiglieria da montagna: si
stabiliscono le caratteristiche
del Cappello Alpino per
l’Ufficiale: in pratica un cappello
alpino da truppa abbellito da
una soprafascia di nastro presente anche sulla tesa.
Cappello alpino da ufficiale con fregio modello 1910 in canutiglia argentata,
nappina in metallo argentata. Questo cappello fu utilizzato anche durante la
guerra Italo-Turca del 1912.
(coll. Cianfanelli, foto arch. L’Alpino)
Visione laterale di uno stupendo esemplare di cappello alpino del 1910, nuovo di magazzino nonostante cento anni!
Il feltro, il colore, la forma sono quelli prescritti dalla circolare del Giornale Militare. Reca tuttavia, già il fregio
ricamato in seta grigioverde istituito per gli ufficiali nel 1915.
(coll. Stefano Rossi)
I Cappellifici civili coinvolti nelle forniture
militari dal 1911 al 1918.
La lavorazione del feltro era particolarmente
sviluppata nelle seguenti aree:
Alessandria, Monza, Intra, Biellese per il feltro
di lana e di pelo; Pescia, Arezzo e Montevarchi
per la lavorazione dei cappelli di paglia e di feltro
di lana. Le ditte che produssero il cappello
alpino fin dal 1910, furono:
CAPPELLIFICIO ALBERTINI. In Piemonte,
nacque nel 1862 ad Intra, l’unico cappellificio
che non subì crisi durante la guerra, anzi: Albertini
riesce a vincere per la seconda volta
l’appalto per la fornitura di cappelli di feltro
grigioverde con contratto regolamentare compresa
la produzione del “pacco dello smobilitato”
che verrà dato al soldato a fine guerra. E’ da
sottolineare dunque che fin dal 1911 l’Albertini
ebbe ufficialmente l’appalto per la produzione
del feltro per il cappello alpino e per lo stesso
copricapo finito. Non solo: il materiale che usò per i cappelli alpini fu il pelo di coniglio anche con le
restrizioni della guerra.
La fabbrica vincerà un terzo appalto per forniture militari nel 1938 producendo sempre il cappello alpino
che rimase sempre un prodotto d’eccellenza. Dopo il secondo dopoguerra, nel 1948 la produzione
dei cappelli è trasferita in Colombia e Venezuela e nel 1951, causa la concorrenza inglese, è costretta
a chiudere.
A Ghiffa, esiste oggi un interessante museo del Cappello che raccoglie l’attrezzatura proveniente
dall’Albertini e della Panizza. In ampie vetrine, fra centinaia di cappelli, spicca anche un cappello alpino
mod. 1910!
CAPPELLIFICIO MONZESE S.A.
Nato nel 1905 dal Cappellificio Carozzi, fu il
secondo cappellificio ufficialmente autorizzato
a produrre cappelli di feltro grigioverde per
l’esercito, soprattutto in lana merinos durante la
guerra.
È – infatti – fin dal 1911 che ottiene in esclusiva
con Albertini di Intra, la commessa per il
nuovo modello di cappello alpino. Il Giornale dei
Cappellai, organo di matrice sindacale dei lavoratori
cappellai di Monza, definì questa commessa
come “un capitolato d’oneri per un copricapo
di foggia boccaccesca o studentesca”.
Anche durante la II^ Guerra mondiale la produzione
del cappello alpino è ottenuta in esclusiva.
La Ditta, fra alterne vicende del secondo dopoguerra,
è costretta ad essere messa in liquidazione
e chiudere nel 1978.
Anche a Monza esiste il museo Etnografico che raccoglie documentazione sulla produzione del Cappello.
Cappello alpino con fregio ricamato a macchina
dell’artiglieria da montagna (I° Reggimento) di produzione
bellica (1918). Il feltro è in lana e non in pelo.
(coll. Museo dell’Artiglieria di Torino).
Timbratura interna di un cappello alpino prodotto dal Cappellificio
Monzese.
(coll. Stefano Rossi)
Queste dunque furono le uniche ditte che vinsero l’appalto per la produzione del Cappello Alpino da
truppa e da Ufficiale (naturalmente quest’ultimo venne confezionato anche da altri piccoli cappellifici
e negozi).
Ricordiamo infine la Società Anonima Cooperativa Cappellai del Biellese (CERVO dal 1921): non direttamente
coinvolta per la produzione del Cappello Alpino del 1910, é – invece – oggi l’unica fornitrice
del Cappello Alpino sia per Truppa che per Ufficiali dell’Esercito. Per il cappello alpino da ufficiale
il feltro utilizzato è in pelo di coniglio, mentre è dubbio e scadente – purtroppo – il materiale per il
modello da truppa. Con l’internazionalizzazione del mercato e il ribasso dei costi a scapito della qualità,
si rimpiangere sempre di più la lavorazione del “vecchio” Cappello Alpino del 1910 Made in Italy.
Il Cappello Alpino del 1910 è ancora oggi, vagamente simile nella forma, portato dalle nostre truppe
da montagna con la medesima fierezza dei nostri veci. Vogliamo chiudere questo centenario con tre
scritti di due Penne eccellenti, proprio dedicati al Cappello Alpino e al suo “accessorio”, la Penna nera.
Un cappello alpino mod. 1910 usato ancora oggi: feltro in pelo, fregio in lana nera mod. 1916 dell’8° Alpini, stemma
in ottone del 1878 della SAT (il CAI Tridentino) appartenuto ad un Irredento della Val di Fiemme, una coccarda tricolore
in lana del primo ‘900 con una stelletta metallica mod. 1906. La penna, di colore nocciola è trattenuta da una
pallottola per fucile ‘91. Nella fascia in cuoio si intravede una spilla a forma di stella alpina con le date 1914– 1916,
di produzione austriaca.
Cordoncino grigio con cappio e “rosetta” che serviva come soggolo. Venne abolito nel 1912, cucendo poi all’interno
del Cappello Alpino un nastro di bavella di color grigio. Entrambe le soluzioni si rivelarono poco utili e vennero spesso
scucite dagli alpini. Un retaggio di tale cordoncino è presente negli attuali modelli “Bantam”, cappello alpino per
ufficiali, ma solo per motivi estetici.
(Coll. Stefano Rossi)
Foto eseguita da Paolo Monelli al fronte durante la Grande Guerra: da notare i “cenciosi” cappelli alpini con il fregio
(soprattutto per quello in primo piano) cucito molto in basso, per buona parte sotto la fascia di cuoio del cappello.
(Foto arch. Monelli, tratta dal catalogo della Mostra tenuta a Borgo Valsugana nel 2009).
A sinistra una foto del fregio mod. 1910 per truppe alpine, ricamato in filo di lana verde, appartenuto ad un alpino
del 5°. (Coll. Privata)
A destra, invece, il disegno tratto dal Giornale Militare del 1880 che illustra il fregio ricamato in canutiglia d’argento
per kepì degli ufficiali alpini. In pratica i fregi sono i medesimi sia nella forma che nelle dimensioni, ad eccezione che
nel 1910, il panno utilizzato fu il grigioverde e non più il nero o l’azzurro turchino delle vecchie divise.
A sinistra. Esemplare di cappello alpino mod.1910 con fregio per truppa, appartenente al 5° Alpini, Battaglione Tirano.
Purtroppo ha perso il cordoncino grigio che girava intorno alla fascia, a mo’ di soggolo (da notare, infatti la scucitura
del cuoietto sotto la nappina, dove si formava la “rosetta”). La piegatura sulla cupola, detta in gergo
“fighetta”, serviva, una volta inumidita con acqua, a mantenere più fresca la testa. Anche le falde completamente
abbassate conferivano al cappello una forma tipo caschetto coloniale, come illustrato dalla foto storica a pag. 1 del
presente lavoro.
A destra. Ritratto di un alpino che indossa il cappello con “fighetta” e falda anteriore alzata, segno che il soldato era
un coscritto. Notare pure la nappina di vecchio modello, grande, delle bombette ottocentesche.
PENNA NERA
Di Aldo Rasero
Esile lembo di un’ala
che sa di altezze infinite,
di spazi sconfinanti
di dominio dei monti
e del piano.
Simbolo dei soldati dell’Alpe
perpetui nel tempo
sibili di tormente,
furor di battaglie,
pietà di opere buone,
calvari di penne mozze.
Segno imperituro
di forza, di coraggio,
di sacrificio, di valore,
piantata sul cappello alpino,
svetti nel cielo come bandiera
vecchia e cara penna nera.
IL NOSTRO CAPPELLO
Di Aldo Rasero
“Sapete cos’è un cappello alpino?”
È il mio sudore che l’ha bagnato e le lacrime
Che gli occhi piangevano e tu dicevi:
“nebbia schifa”.
Polvere di strade, sole di estati, pioggia e
Fango di terre balorde gli hanno dato il colore.
Neve e vento e freddo di notti infinite, pesi di
Zaini e sacchi, colpi d’armi e impronte di sassi
Gli han dato la forma.
Un cappello così hanno messo sulle croci dei
morti, sepolti nella terra scura, lo hanno
baciato i moribondi come baciavano le mamme.
L’han tenuto come una bandiera.
Lo hanno portato sempre.
Insegna nel combattimento e guanciale per le notti.
Vangelo per i giuramenti e coppa per la sete.
Amore per il cuore e canzone di dolore.
Per un alpino il suo cappello è tutto.
Disegnini illustranti il cappello alpino: si riconosce
il tratto di Vellana Marchi.
IL CAPPELLO ALPINO
di Giulio Bedeschi, Il Segreto degli Alpini, pagg.25-27, Mursia, 2004
È impossibile spiegare appieno cosa significhi per gli alpini, quel loro cappello. Cosa sia è presto detto: un copricapo di
foggia piuttosto strana, al tempo stesso popolaresca ed antica, con una cupola di panno infeltrito fornita di un’ala che le
gira tutt’attorno, sul davanti abbassata verso gli occhi e all’indietro rialzata sulla nuca; e una penna infine, proterva e scanzonata,
puntata dritta verso il cielo dal lato sinistro del cocuzzolo. Ma cosa quel cappello significhi nessun alpino ve lo saprà
mai dire per intero. Perché, a spiegarlo, non si tratta di usar parole, ma la vita; si tratta della particolare maniera in cui si
sono riempiti i giorni, le ore, i minuti della vita. E chi riesce, alla fine, a tirare le somme e spiegare la vita?
Sta di fatto che il personale legame fra l’alpino e il suo cappello era già cominciato sul finire dell’Ottocento, quando il copricapo
era ancora a foggia di bombetta rigida e nera, ma da principio quel legame era certamente basato sull’amor proprio,
sullo spirito di corpo, perché cappello e penna contrassegnavano, fra tutti i soldati, gli alpini fin dalla prima occhiata: cappello
più penna nera uguale alpino.
Ma, trascorsi i primi decenni in marce di addestramento e di sfaticare fin su i ghiacciai delle Alpi, era destino che fosse
l’Africa la terra su cui la figura dell’alpino doveva diventare incisiva e diventare tutt’uno col suo cappello. Fu allora, infatti,
dapprima nella campagna d’Eritrea e successivamente durante la campagna di Libia che gli alpini si trovarono a fare i conti
con la dura realtà della guerra. Marce interminabili nella grande calura, fatiche indicibili, imboscate, agguati, combattimenti
improvvisi; e sempre, nel camminare sotto il torrido sole, soltanto quell’ala di panno che stava lì a riparare gli occhi dalla
grande luce, ora dopo ora fino al tramonto. Sempre sete, sempre sudore. Dalla fronte dell’alpino il sudore trapassava il
panno, lo inzuppava in un alone scuro che si diffondeva a macchia, e ciascuno riconosceva il suo: questo è il mio cappello.
Si trattava anche di sangue, spesso. Quando in battaglia un alpino cadeva a terra con un gemito, c’era sempre l’amico che
gli s’inginocchiava accanto e fissava sgomento gli occhi del colpito a morte, quel sangue che usciva lento da qualche parte
del corpo disteso. E sempre lì vicino c’era inoltre qualcosa d’insanguinato, nella caduta rotolato due metri più in là, ma
sempre gelosa proprietà del morente: quel suo cappello. Allora il soccorritore lo raccoglieva, lo riguardava, restava indeciso
con quel cappello fra le mani, senza arrischiarsi a rimetterlo al suo posto abituale, non si mette il cappello in testa ad un
uomo sdraiato e oramai morto; per il dolore e per l’impaccio qualcosa nella gola non andava più né su né giù, ed era quel
gran magone, quella desolata voglia di piangere per l’amico che stava intiepidendosi e col quale non si poteva più parlare:
non rispondeva più. Allora accadeva che infine per istinto il cappello veniva posato sul petto del caduto, su quel torace
ormai immobile, ma poi l’alpino restava ancora inginocchiato a guardare in silenzio. A quel punto, tenendo lo sguardo sul
cappello posato su quel torace fermo, si accorgeva che nella rovinosa caduta anche la penna s’era spezzata. Nei combattimenti
furono la prima, poi due, poi cinque, poi dieci e cento le penne spezzate a quel modo; finché gli alpini si avvidero
che quello era il segno della morte, la morte di un alpino, e qualcuno di loro incominciò a indicare timidamente i fratelli
caduti chiamandoli “le Penne Mozze”, come a dire in un modo meno brutale e quasi poco poetico: una vita spezzata in
due. E siccome nell’animo degli alpini, in apparenza ridanciani e spesso ruvidi e perfino a volte rozzi, sta sempre sprofondato
un tantino di poesia, quel “Penne Mozze” resse nel tempo, e col consolidarsi e moltiplicarsi della storia delle Penne
Nere diventò tradizionale ed esclusivo sinonimo di alpino caduto. Gli alpini ancora non sapevano, ma la sempre ritornante
follia degli uomini avrebbe poi provveduto nel tempo, a ricacciarli in sempre nuove guerre, e a far si che le Penne Mozze
diventassero a un certo punto più numerose degli alpini viventi; e a un dato momento le Penne Mozze s’erano moltiplicate
tanto da dover trovare un loro posto dove metterle, e così fu ideato e costruito un luogo apposito, chiamato il Paradiso di
Cantore.
Ma questa è una storia che per il momento sta maturando ed è di là da venire, Cantore è ancora vivo ed è in Africa con i
suoi alpini; e allora limitiamoci a dire che in Africa l’alpino cominciò ad avviarsi lentamente e inconsciamente, di giorno in
giorno, col suo cappello, verso la leggenda.
L’immancabile tratto di penna di
Novello da una illustrazione de “La
guerra è bella, ma è scomoda”.
In alto: Disegno per il fregio da ufficiale in canutiglia d’argento istituito nel 1912 a sostituzione di quello con corona
reale. La truppa, invece, ebbe il fregio ricamato in lana verde (qui sopra)con il numero di reggimento ricamato in
lana bianca. Solo nel 1916, per ovvi motivi di mimetismo, i fregi, per ufficiali e truppa, vennero ricamati in lana nera,
mantenendo lo stesso disegno.
(coll. Privata)
Particolare della tesa anteriore del cappello mod. 1910 ove si
evidenziano le cuciture a mezzaluna effettuate a macchina.
Questa lavorazione è sì indicativa per contraddistinguere i
cappelli di vecchia lavorazione, ma non è sufficiente; si deve
infatti ricordare che questo particolare scomparve
“misteriosamente” intorno agli anni ’50… La trapuntatura
anteriore serviva a rendere la tesa anteriore più rigida e meno
soggetta ad afflosciarsi con l’uso.
(coll. Privata)
Cappello alpino da truppa del 1 Reggimento, con
fregio in lana nera mod. 1916 cucito sopra la fascia
in cuoio.
(Coll. Stefano Rossi)
NOTE:
1) Ernani originariamente fu un dramma in 5 atti e in versi di Victor Hugo, rappresentato la prima volta al Théâtre –
Français il 21 febbraio 1830. Al dramma di Hugo s’ispirò Felice Romani che nel 1832 approntò un Ernani per Vincenzo
Bellini; il personaggio Ernani incarnava alla perfezione tutti gli ideali romantici di eroismo, patriottismo, lotta per la
libertà, senso dell'onore, fedeltà alla parola data, ma anche l'amore e la passione fino al sacrificio della vita. Per la
paura del veto della censura alla rappresentazione in Milano, il musicista trasferì le arie già composte nella Sonnambula.
Più tardi, Verdi rappresentò il dramma per la prima volta a Venezia nel 1844 e da questa il compositore si affermò
sulla scena musicale europea.
2) Luigi Mezzocapo, nato il 25 gennaio 1814 a Trapani, fu ufficiale d’artiglieria nell’esercito borbonico; dopo varie
vicissitudini fu promosso generale il 30 giugno 1849. Il 25 marzo 1876 ebbe il portafogli della guerra (e volle fortemente
aumentare la forza delle Compagnie Alpine). Il 5 marzo 1882 fu nominato aiutante di campo generale onorario
di S.M. Morì per infarto il 27 gennaio 1885.
3) Dal I° gennaio al luglio 1879 divenne Ministro della Guerra il Generale Mazè de la Roche che diede riforme morali
e politiche altrettanto notevoli all’Esercito: il 3 febbraio 1879, l’Esercito Italiano sotto di lui prese il nome di Regio
Esercito Italiano. Il Ministro liberò la fanteria dall’uso continuo e cencioso del cappotto, dando la giubba; ne ravvivò il
colore, ridando il turchino. Valente alpinista, organizzò nel 1882 con il Club Alpino di Torino e due compagnie alpine
in armi, il pellegrinaggio per l’inaugurazione al monumento dei Caduti sul Colle dell’Assietta. Inoltre lo si vide spesso
e volentieri partecipare alle escursioni invernali ed estive delle Compagnie Alpine a cui fu sempre molto legato. Morì
improvvisamente il 29 marzo 1886 a Torino cadendo da cavallo.
4) Infatti oltre ad avere la bombetta per le “Truppe di terra”, la Guardia di Finanza ebbe anche il cappello alpino in
feltro grigio verde durante la guerra. Attualmente gli allievi della Scuola Alpina della Guardia di Finanza di Predazzo
utilizzano il modello Bantam. Anche il Corpo Forestale dello Stato indossa questo modello.
5) Fin dal 1890 esisteva una ditta (certamente non l’unica) specializzata in minuterie metalliche: la ditta G. Fornara &
C. a Torino produceva articoli derivanti dal filo metallico dal più grande (diametro di 100 mm.) a minuterie varie come
spilli d’ottone e acciaio, ganci e occhielli verniciati e alcuni rivestiti in celluloide per cappelli. Gli occhielli
d’areazione per il cappello alpino erano in ferro dolce verniciato proprio per non ossidarsi e macchiare il feltro. Se ne
produssero di due tipologie: una con il foro piccolo e un’altra con foro più ampio, più tipico dei berretti. Gli occhielli
in alluminio comparvero negli anni ’30 ovviando al problema dell’ossidazione.
6) Tale lavorazione che serviva a rendere la tesa anteriore più rigida, scomparve dopo il secondo dopoguerra. Al momento
non si è trovata la disposizione ministeriale che abbia determinato la soppressione di tale lavorazione.
Nonostante le accurate indagini per reperire notizie ed immagini, lo studio è lungi dall’essere perfetto e me ne scuso con i Lettori. Ringrazio tutti
quanti hanno dato un contributo (notizie e foto) per rendere il più completo possibile questo “Speciale Anniversario”.
Qualsiasi parte del presente studio (immagini e scritti) sono coperti da proprietà intellettuale dell’Autore ed è vietata ogni riproduzione—anche
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(Andrea Bianchi)articolo descrizione storia delcappello alpino